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Arsenale di Venezia. Progetto e destino

presentazione di Donatella Fiorani del libro "Arsenale di Venezia. Progetto e destino, a cura di Monica Bosio, Tommaso Fornasiero e Valentina Gambelli, Incipit editore, Conegliano 2017"

  Copertina del libro "Arsenale di Venezia. Progetto e destino"

Venezia, Palazzo Ducale, 12 ottobre 2018 Donatella Fiorani, Presenta

"Arsenale di Venezia. Progetto e destino, a cura di Monica Bosio, Tommaso Fornasiero e Valentina Gambelli, Incipit editore, Conegliano 2017"

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Il libro è il risultato di un lavoro corale che ruota attorno a una ricerca dedicata in particolare alle trasformazioni dell’Arsenale negli ultimi quarant’anni. La presentazione del volume trascende pertanto la pura dimensione scientifica perché inevitabilmente porta al confronto con l’attività svolta su questo importante complesso veneziano da molteplici operatori diversi, perlopiù collegati a istituzioni pubbliche e private: Comune, Soprintendenza, Università, Fondazione La Biennale.

Articolerò quindi la mia presentazione in tre parti, rispettivamente dedicate a libro in sé, allo scenario architettonico che esso delinea e ad alcune considerazioni di metodo sul tema dell’intervento sulle preesistenze storiche.

Il volume, di circa 300 pp. comprensive di ottime illustrazioni fotografiche e soprattutto grafiche, si articola, dopo le presentazioni di Carlo Magnani, rettore dello IUAV nel 2006-09, e della soprintendente Renata Codello, in una serie di saggi di diversi autori e raccoglie come parte non accessoria (significativamente organizzata al centro del volume e non come appendice) la schedatura di 16 interventi già effettuati su 28 diverse fabbriche dell’Arsenale e la presentazione di 6 tesi di laurea elaborate su altre zone nodali del complesso.

Come chiaramente sottolineato nell’introduzione di Stefano Rocchetto, e come analiticamente specificato nel saggio di Claudio Menichelli, entrambi riconoscibili in un certo senso quali ‘registi’ della ricerca, quest’opera collettanea si colloca all’interno di un articolato sedime di studi sull’Arsenale avviato a partire dalle monografie di Giorgio Bellavitis ed Ennio Concina (1983 e 1984), non a caso negli anni del ‘risveglio’ d’interesse per la struttura dopo un trentennale abbandono.

Questa premessa è indispensabile per comprendere, forse, l’organizzazione dei diversi contributi e in particolare la scelta di collocare il sintetico ed efficace quadro di sintesi storico-costruttiva e funzionale proposto da Claudio Menichelli quasi in chiusura e non, come ci si sarebbe aspettati, all’inizio del volume. Motivazioni, trasformazioni e realizzazioni degli interventi vengono pertanto svelate nel corso della lettura in una progressiva stratificazione di dati e chiavi interpretative che presuppone, per certi versi, una preliminare conoscenza del complesso e delle sue vicende costruttive o piuttosto sottolinea (ed è questo un argomento che riprenderò in seguito) una sorta di gerarchia d’interessi.

Uno dei meriti principali del volume è certamente nella volontà/capacità di aver dato forma organica e visibilità a una vicenda di conservazione e trasformazione nel contempo urbana e architettonica, la quale sarebbe rimasta altrimenti sconosciuta ai più, perlomeno nel suo carattere complesso e sistemico. La ‘volontà’ era chiaramente motivata dalla mancanza di un quadro di riferimento generale che desse ragione di una realtà profondamente ‘introversa’ quale quella dell’Arsenale. La ‘capacità’ è stata ampiamente comprovata dalla coerenza, tutt’altro che facile da perseguire, del panorama proposto, frutto di un lavoro paziente e oltremodo faticoso, considerando la probabile disomogeneità dei materiali prodotti in quarant’anni da parte di enti e professionisti diversi. Grande plauso, per questo, va al gruppo dei curatori del libro: Monica Bosio, Valentina Gambelli e Tommaso Fornasieri, sulle cui spalle è ricaduto l’onere e l’onore della raccolta dati e della loro restituzione in forme ragionate comprensibili e comparabili.

Lungi comunque dal presentarsi come mero repertorio d’interventi, il volume intesse fecondi rapporti fra analisi della realtà e critica dei problemi, espressa sia nella forma logica del ragionamento sia in quella propositiva espressa dai progetti elaborati in tesi di giovani laureandi in Architettura. Ognuno di questi ultimi ha affrontato, coadiuvato sempre dal coordinatore e dal gruppo di lavoro che ha costruito il presente volume, problematiche ancora aperte e complesse. In un unico caso, relativo all’intervento sulla sala d’Armi, il progetto accademico si affianca ad un intervento concretamente realizzato. Tale intervento, fra i più recenti, viene anche approfondito in un contributo di Ilaria Cavaggioni, che offre la sua personale lettura delle modalità operative sull’arsenale dal 1980 ad oggi in termini di reversibilità, flessibilità funzionale e innesto e apre alle sfide future da affrontare per l’Arsenale di Venezia. Non manca infine lo spazio per l’incompiuto: il saggio finale di Stefano Rocchetto rende infatti conto dei progetti non realizzati per l’Arsenale, i quali costituiscono una storia che, seppur non ‘precipitata’ in un evento materiale, è comunque in grado di offrire un importante contributo alla riflessione.

Il libro rappresenta quindi un esempio virtuoso di confronto fra mondo universitario e contesto amministrativo, economico e sociale della città: la raccolta e l’esame della documentazione esistente non ha solo condotto a una valutazione critica delle opere, attenta alle connessioni geografiche, architettoniche e culturali ad ampio spettro, ma ha anche aperto a nuove proposte di strategie operative.

E veniamo quindi all’oggetto di studio, all’Arsenale, e alle sue recenti trasformazioni. Il quadro delineato può essere letto attraverso molteplici chiavi di lettura, partendo dalle grandi metafore che esso raccoglie: quella della trasformazione del vecchio continente che si spoglia della sua anima proto-industriale e pienamente industriale per riconvertire totalmente i suoi spazi e la sua vocazione ai servizi e al terziario e quella di un Paese (di un mondo?) che ha esaurito le aree di edificazione e che cerca un nuovo territorio di conquista nel delicato confronto con l’esistente. Architettura unica e al tempo stesso rappresentativa, l’Arsenale è ugualmente un brano di città, come ben spiegano gli autori, unità d’impianto e molteplicità di forme e di stratificazioni, tema di archeologia industriale, di conservazione, di restauro urbano e d’innovazione. È territorio di complessità e sovrapposizioni tematiche, dove s’intrecciano tutti i registri dell’architettura senza esaurire le necessità di approfondire e bilanciare, perché è ancora storia della produzione, luogo di sperimentazioni artistiche, oggetto di negoziazione pubblico/privato.

Considerando, come più ci compete, i soli aspetti architettonici e urbanistici e considerando ciò che è oggi l’Arsenale in relazione a ciò che avviene oggi nel resto d’Europa, possiamo osservare come la strategia dell’‘inserto’, come viene definito da Cavaggioni, o del sistema di giustapposizione ‘involucro/intervento-interno’, secondo l’espressione di Bosio – torneremo su questo implicito rovesciamento lessicale – trovi riscontri in altri interventi contemporanei. In particolare, la disposizione di nuovi volumi all’interno di edifici esistenti rimanda ad un approccio in voga soprattutto nell’Europa centro-settentrionale, autodefinitosi Adaptive Reuse. Tale modalità ha prodotto esiti diversi anche su strutture monumentali di una certa rilevanza, fra cui ricordiamo l’abbazia d’Ardenne a Saint-Germain-la-Blance-Herbe in Francia (2000-04), la Camera di Commercio ad Ambugo, Germania (2003-07), la chiesa dei Domenicani a Maastricht, in Olanda (2006-08), la cappella di Las Jerónimas a Brihuega, Spagna (2009-12), la chiesa di St Mary a Rush, in Irlanda (2010), il monastero di Ptuj in Slovenia (2013) e, in Italia, la chiesa di S. Ponziano a Lucca (2005-07). L’Adaptive Reuse è un approccio sostanzialmente orientato alla rifunzionalizzazione dell’esistente che supera il problema della calibratura del rapporto fra preesistenza e innovazione attraverso il ricorso tassativo alla reversibilità e al distacco dell’inserimento.

Numerosi interventi effettuati sulle tese o su altri edifici dell’Arsenale sembrano riferirsi a questa strategia operativa, soprattutto se finalizzati all’inserimento di depositi e uffici. Ma, pure, è possibile riconoscere un ventaglio aperto di logiche progettuali ed esiti diversi, la cui disamina critica è stata proposta dai contributi di Stefano Rocchetto e Monica Bosio. Soprattutto la seconda autrice ha privilegiato la lettura del ‘linguaggio’ dell’intervento innovativo, esplicitando il rovesciamento di prospettiva che trasforma l’‘inserto’ modellato all’interno di una fabbrica dotata di un’identità propria in ‘intervento’ configurato in un involucro vuoto. Ho trovato quindi particolarmente interessante il confronto fra progetti vincitori e secondi classificati proposto da Stefano Rocchetto, che consente di cogliere meglio i legami – impliciti o espliciti – che necessariamente si istituiscono fra ‘vincoli’ e soluzioni progettuali e di valutare i margini di manovra che la preesistenza suggerisce.

Proprio nel rapporto fra vincolo e soluzione creativa proposta si focalizza il giudizio di qualità dell’intervento, almeno per i restauratori. Grazie ai dati e, soprattutto, alla meticolosa schedatura forniti dal libro, il mio lavoro di recensore può così proporre un percorso autonomo, suggerendo un esercizio che tutti coloro che avranno modo di avventurarsi nella lettura del volume potranno a loro volta sperimentare. È possibile, infatti, ordinare gli interventi seguendo chiavi di lettura diverse, ad esempio considerando la percezione complessiva dello spazio in ogni singola fabbrica, istantaneamente fruibile come sintesi di preesistenza e innovazione. In tal senso sono riconoscibili quattro distinti gruppi d’intervento:

1) lavori che restituiscono gli ambienti storici nella piena evidenza della loro propria spazialità e fisicità, pur ammettendo l’immissione interna di minimi corpi funzionali (tesa di San Cristoforo, teatro piccolo Arsenale) o, talvolta, di elementi – perlopiù di carattere funzionale e/o evocativo – palesati all’esterno (sale d’Armi per la Biennale). Si tratta di una modalità utilizzata già dal primo intervento di Mainardi e Cappai degli scorsi anni Ottanta, che molto attinge alla sensibilità tardo-novecentesca del restauro;

2) interventi definiti da frazionamenti interni, con e senza volumi aggiunti (rispettivamente ex mensa ed edificio per gestione sistema Mose ed ex bunker), prioritariamente indirizzati dalle necessità d’uso;

3) realizzazione di ambienti in cui gravitano volumi dotati di propria autonomia spaziale (tesa 107), di volta in volta caratterizzati da espansioni sotterranee (HBB centro controllo traffico marino) o collegati da passerelle che evitano l’interferenza materiale ma non quella percettiva (tese 108/109/111) o connotati da una forte espressività che s’impone sulla preesistenza (tese 101/102/103/104/105/106/capannoni lamierini, edificio ex generatori per Uffici Mose);

4) progettazioni integrate, che assimilano gli obiettivi dei nuovi inserimenti alla logica complessiva dell’organismo architettonico, cogliendo dai vincoli posti dalla preesistenza gli stimoli per la proposta innovativa, non più d’innesto ma d’‘integrazione’ a tutti gli effetti, come si riscontra nell’intervento sulla torre alberaria di Porta Nuova. L’edificio, che ora ospita il Centro studi dell’Arsenale, vede fondere le scelte progettuali innovative con le ragioni della fabbrica storica: i solai sono posizionati in modo da lasciare libera la visuale interna degli arconi, il sistema di rampe metalliche fa da contrappunto alla scala ‘funzionale’ esistente, musealizzata, assecondando con equilibrio le geometrie della costruzione.

Il sistema ‘integrato’ si sostituisce in quest’ultimo caso a quello ‘paratattico’ dei gruppi precedenti, sicuramente agevolato dalla destinazione funzionale, ma comunque espressione di un modo di ragionare che non separa competenze e contenuti ma li salda in un’unica coerente espressione figurativa.

Quest’ultimo caso consente di chiarire bene l’equivoco che il restauro costituisca un’attività esclusivamente conservativa che impedisce l’innovazione. L’approccio ‘integrato’, al contrario, connota diversi restauri italiani e ha trovato applicazioni convincenti anche nel resto d’Europa, come dimostra – con problematiche e proposte diverse – l’apprezzatissima redazione del Neues Museum di Berlino. L’esito figurativo è qui appunto espressione di un metodo di lavoro che trova il suo fondamento nella paziente interrogazione dell’edificio, garantita, a Berlino come a Venezia, dalla vigile e attiva presenza di architetti degli uffici per la tutela e, in particolare a Venezia, dal costante coinvolgimento dell’Università nelle attività di studio dell’Arsenale, cosi come argomenta con precisione alla fine del libro Stefano Rocchetto.

Ricordo, per inciso, che la specificità italiana di formare architetti che possiedano gli strumenti per comprendere il processo di trasformazione della fabbrica (attività in altri paesi affidata a competenze disciplinari diverse, in primis archeologiche) conferisce al progettista una maggiore consapevolezza operativa, favorendo la capacità di guidare in una sintesi coerente l’aspetto conservativo, materico e costruttivo, con quello creativo, architettonico. Nell’arco di quarant’anni l’Arsenale è stato infatti materialmente investigato e concettualmente ‘smontato’ per comprenderne le tecniche costruttive, la successione di fasi d’accrescimento e modifica, le specifiche vocazioni funzionali e in questo percorso di approfondimento conoscitivo hanno trovato radice tutte le proposte operative esistenti. Come s’è visto, alcune di queste sono state ‘contenute’ dai limiti prefissati da ben strutturati concorsi di progettazione o dalla guida della soprintendenza, altre hanno dagli stessi limiti trovato ispirazione e potenziamento.

La rilevanza storico-architettonica dell’Arsenale fa di questo sito un luogo a cavallo fra monumento storico ed edificio industriale, la cui identità funzionale non esaurisce il proprio valore architettonico né le sue potenzialità d’integrazione nella vita della città. Per questa ragione, come gli autori del volume in diverso modo dimostrano, è proprio nelle sue qualità architettonico-costruttive e nello straordinario potenziale di adattamento a funzioni differenti, in particolare negli squeri, che l’innovazione trova possibilità di espressione forse uniche nel centro storico di Venezia.

In conclusione al suo ultimo saggio, Rocchetto esprime un richiamo dolente ai tempi in cui le proposte universitarie (a Venezia ma anche a Roma e, in generale, in tutte le sedi italiane attive fra anni settanta ed ottanta del Novecento) rivolgevano una grande attenzione ai problemi della città e del suo territorio. Attenzione che è stata perlopiù reciproca e che ha conferito “forza e autorevolezza” alla ricerca scientifica e alla sperimentazione didattica come oggi purtroppo accade raramente.

Ci si augura, quindi, che il libro sull’Arsenale contribuisca a rinnovare il dialogo fra istanze culturali, sociali e politiche, favorendo così il dialogo sui problemi e sulle opportunità offerte dal patrimonio storico e la conseguente elaborazione di risposte progettuali ponderate e mature.

Donatella Fiorani

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